Fallire per crescere e ripartire
di Gabriele Cerruti – Business consultant & ICF certified Coach – Mentore e Business Coach di 100.000 Ripartenze
Nella lingua italiana la parola fallimento non lascia spazio ad interpretazioni.
Dalla Treccani al Devoto Oli, oltre a quella giuridica anche la definizione in senso figurato ha una valenza esclusivamente negativa:
“esito disastroso, clamoroso insuccesso, riconoscere l’inutilità dei propri sforzi e la propria incapacità di superare un situazione difficile o di raggiungere il proprio scopo.”
Vengono poi riportati degli esempi nella forma verbale (Es: “ha fallito tutto nella vita”), che riportano un giudizio che sa di definitivo.
Andando a vedere come la lingua inglese definisce lo stesso vocabolo (failure), ho notato un’interessante differenza.
Ad esempio nell’Oxford Dictionary la definizione è accompagnata da esempi che sembrano identificare il fallimento non come una sentenza, ma come un incidente di percorso (Failure in an examination should not deter you from trying again, o Success came after many failures…).
Mi sono convinto quindi che c’è una differenza di tipo culturale e che in Italia, indipendentemente dal campo d’applicazione, il termine ha un’accezione unicamente negativa: il fallimento è da evitare a tutti i costi!
Mi ha molto colpito quindi la pubblicazione qualche anno fa del libro “Fallimento è rivoluzione” di Francesca Corrado, ricercatrice, autrice ed imprenditrice che ho avuto modo di incontrare alla presentazione del suo libro presso la libreria “La pecora elettrica” nel quartiere di Centocelle, dopo che per la seconda volta era stata incendiata (vedi articolo (6) La Pecora e la Fenice | LinkedIn).
Francesca ci invita a cambiare paradigma, a vedere ciò che ieri abbiamo considerato fallimenti come esperienze da cui trarre preziosi insegnamenti per ripartire con più slancio e determinazione.
Un esempio riportato è quello di Ayrton Senna, che tutti ricordiamo come il pilota più forte nella guida sul bagnato. Ebbene pochi sanno che Senna lo è diventato dopo aver commesso un errore durante un forte temporale che lo ha costretto al ritiro quando era in testa. Possiamo immaginare la sua frustrazione, ma è proprio da quell’episodio che ha avuto inizio un impegnativo programma di allenamento sul bagnato, finchè questa condizione non è diventata per lui la condizione normale. E così quando iniziava a piovere ce lo ricordiamo accelerare al massimo, mentre tutti gli altri rallentavano.
Già da questa storia possiamo prendere spunto per fornire al termine fallimento dei nuovi significati.
Sappiamo che le imprese di successo per rimanere competitive devono creare e innovare continuamente i loro prodotti e servizi e che per far questo si devono addentrare su terreni sconosciuti per esplorare nuove possibilità attraverso la sperimentazione. Il problema è che in un contesto in costante cambiamento come quello che stiamo vivendo (definito “Mondo VUCA”: Volatile-Incerto-Complesso-Ambiguo), non ci sono più certezze ed anche facendo le analisi più accurate non saremo mai certi del risultato che potremo ottenere.
Ne deriva quindi che se le aziende vogliono crescere devono mettersi continuamente in discussione (soprattutto se le cose stanno andando bene), inserendo la sperimentazione come pratica di lavoro quotidiana e mettendo in conto che non sempre i risultati saranno quelli previsti.
L’alternativa è rimanere fermi ad aspettare, magari seduti sugli allori del successo, per poi fare la fine di Saab, Kodak, Nokia, Blockbuster e di tutte gli altri famosi marchi che oggi non esistono più.
In questo senso fa riflettere il dato della vita media di un’azienda Fortune 500, che negli ultimi 50 anni è passata da 75 a soli 15 anni, con la previsione di scendere a 12 nel 2027. Senza una cultura aziendale della sperimentazione che preveda la possibilità per tutti i collaboratori di fare errori e incorrere in piccoli fallimenti senza il rischio di venire per questo giudicati o addirittura puniti, saranno sempre di più le aziende che avranno vita breve.
Peter Senge autore de “La quinta disciplina” già nel 1990 definiva “learning organization” quelle aziende che sono in grado di imparare grazie ad un approccio al lavoro basato sul problem solving e sulla sperimentazione.
Sono le aziende che hanno la capacitò di apprendere attraverso prove ed errori ed è soprattutto da questi che apprenderanno le lezioni migliori. Allenandosi ai fallimenti quotidiani cercheranno nuove soluzioni attraverso la perseveranza e la determinazione, imparando a superare ostacoli e difficoltà. Nel tempo, grazie all’acquisizione di questa mentalità e all’apprendimento a tutti i livelli dell’organizzazione, saranno in grado di gestire situazioni ad elevata complessità che gli permetterà di acquisire un importante vantaggio competitivo e di prosperare nel lungo periodo.
Questo è l’approccio con cui ho lavorato per 18 anni in Toyota utilizzando il ciclo PDCA nelle attività quotidiane, che costituisce la metodologia alla base del miglioramento continuo (il Kaizen) e la principale ragione del successo dell’azienda giapponese nel tempo. Questo approccio lo troviamo anche in Amazon, in cui Jeff Bezos chiede ai propri collaboratori di “approcciare la giornata come se fosse il primo giorno di lavoro”, facendosi le giuste domande e proponendo e sperimentando nuove iniziative, pur nella consapevolezza che la maggior parte di queste saranno dei fallimenti.
“Il successo è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo” – W. Churchill
Dovremmo quindi cambiare paradigma e accettare il fallimento non come una sentenza definitiva, ma come un elemento necessario per raggiungere il successo.
D’altra parte la storia dei grandi innovatori e delle persone di più grande successo sono costellate da fallimenti.
A cominciare da W. Churchill, bocciato a scuola, o pensando a A. Einstein definito “mentalmente handicappato”, ad A. Lincoln sconfitto alle elezioni per ben 7 volte, fino a Steve Jobs, cacciato dall’azienda che lui stesso aveva creato. Il loro percorso verso l’affermazione è stato per lungo tempo costellato da evidenti insuccessi! In questo senso è da ricordare la consapevolezza e l’ironia di T. Edison che, a chi gli rimproverava di aver fallito 2.000 volte prima di riuscire ad accendere una lampadina, rispondeva: “Io non ho fallito…, ho solo sperimentato 1.999 modi per non far accendere una lampadina!”
D’altra parte la storia di molti imprese di successo deriva da sperimentazioni fallimentari che hanno generato prodotti e utilizzi completamente differenti da quelli previsti.
Un esempio per tutti l’invenzione dei Post-it da parte della 3M, seguito al fallimento nella realizzazione di un adesivo molto potente. Il denominatore comune di tutti questi successi finali è quello di avere avuto il coraggio di provarci nonostante fossero alte le probabilità di non riuscire e di provarci ancora nonostante i risultati iniziali fossero stati fallimentari. Da qui il motto delle start up della Silicon Valley “Fail fast, fail often” (anche se il recente fallimento della Silicon Valley Bank deve far riflettere…) probabilmente ispirato da una famosa citazione di Samuel Beckett:
“Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.”
In Google i dipendenti vengono incentivati a terminare subito i progetti che non prevedono un successo all’altezza del brand e un ritorno adeguato, in questo modo viene risparmiato tempo e risorse da destinare a nuovi progetti più profittevoli. Forse l’idea dell’incentivo è stata presa dopo che sono stati ritirati dal mercato i Google Glasses, uno dei più grandi fallimenti dell’azienda di Mountain View, non a caso oggi esposti nel Museo dei Fallimenti di Helsinborg in Svezia.
Che per il successo personale siano necessari parecchi fallimenti ce lo spiega anche lo scrittore Malcom Gladwell che in “Fuoriclasse” indica in 10.000 ore o 10 anni il tempo necessario per raggiungere l’eccellenza in una specifica disciplina. Sapendo questo, sarà quindi normale considerare che nel percorso verso l’obiettivo incontreremo numerosi fallimenti, ma è proprio da questi che impariamo ad avere fiducia nelle nostre capacità di riuscita, mettendo in atto strategie per migliorare ogni volta la nostra performance, fino al raggiungimento dell’obiettivo finale.
Tornando al modo imprenditoriale, In Italia la vita media delle imprese è di 12 anni e purtroppo il 50% delle aziende fallisce dopo 5 anni. Questo vuol dire che ogni giorno falliscono circa 35 aziende, per un totale di 12.000 su base annua. Il fallimento di un’azienda è un vero trauma, per l’imprenditore, per i dipendenti e per la comunità in cui opera e non sempre si ha la forza per rialzarsi e riprovare. L’imprenditore in particolare subisce spesso conseguenze irreparabili non solo dal punto di vista professionale, ma anche sulla propria autostima e sulla fiducia nelle proprie capacità in generale.